Dunque, lo sai, e mi puoi credere. Io dormivo una sera sul Latmo - 
era notte - mi ero attardato nel vagabondare, e seduto dormivo, contro 
un tronco. Mi risvegliai sotto la luna - nel sogno ebbi un brivido al 
pensiero ch'ero là, nella radura - e la vidi. La vidi che mi guardava, 
con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi 
dentro. Io non lo seppi allora, non lo sapevo l'indomani, ma ero già 
cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava,
 della radura, del monte. Mi salutò con un sorriso chiuso; io le dissi: 
«Signora»; e aggrottava le ciglia, come ragazza un po' selvatica, come 
avesse capito che mi stupivo, e quasi dentro sbigottivo, a chiamarla Signora. 
Sempre rimase poi fra noi quello sgomento.
 O straniero, lei
 mi disse il mio nome e mi venne vicino - la tunica non le dava al 
ginocchio - e stendendo la mano mi toccò sui capelli. Mi toccò quasi 
esitando, e le venne un sorriso, un sorriso incredibile, mortale. Io fui
 per cadere prosternato - pensai tutti i suoi nomi - ma lei mi trattenne
 come si trattiene un bimbo, la mano sotto il mento. Sono grande e 
robusto, mi vedi, lei era fiera e non aveva che quegli occhi - una magra
 ragazza selvatica - ma fui come un bimbo. «Tu non dovrai svegliarti 
mai», mi disse. «Non dovrai fare un gesto. Verrò ancora a trovarti». E 
se ne andò per la radura.
 





 
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